A Santa Croce Camerina, paesino di circa diecimila anime che ha trovato la propria cifra distintiva nei festini e nella comunicazione strabordante di selfie (per il resto non è che si muova granchè), ieri l’altro è successo qualcosa che non capitava da tempo: qualcuno ha deciso di pensare. E di osare (forse persino troppo). Rispolverando dall’armadio un vecchio accordo che, al giro di boa di ogni legislatura, prende vita: era capitato nel quinquennio dell’amministrazione Barone, e succede anche adesso, quando al vertice del Comune (divenuta “cosa loro”) comandano spavaldi i tifosi di Giorgia Meloni.
Notatelo: un esperimento – quello di mettere insieme tutte le opposizioni – che avviene di solito con le elezioni a distanza di sicurezza e che impedisce di siglare accordi firmati col sangue (sarebbe un po’ troppo). L’unione di Pd, Territorio, Forza Italia e Democrazia Cristiana non può non essere benedetta dall’alto: in quel comunicato un po’ afono, colmo di dichiarazioni di principio, ci sono i simboli. Avranno ottenuto anche solo un cenno con la testa da qualche segreteria provinciale. E pertanto hanno scelto di “fare”.
Probabilmente, fra un anno, torneranno a disfare: perché si accorgeranno di appartenere a mondi diversi, a fazioni contrapposte, a schieramenti incompatibili. A padrini che faranno il possibile per teleguidare un ritorno nei ranghi, in nome e per conto di una “pace” che consente al centrodestra di amministrare questa regione ormai indisturbato. E’ una possibilità e sarebbe senz’altro il refrain di un tentativo già visto. Nulla di strano e nulla di male. Ma qualcuno ha pensato. Ci ha provato. Si è ingegnato. Il Pd ha chiarito che non si tratta di una lista elettorale – potrebbe diventarlo? – bensì di un “laboratorio” delle opposizioni, dove a finalizzare l’impegno comune saranno/sarebbero gli unici due rimasti in Consiglio comunale. Però – caspita – è un passo avanti.
Perché in questa politica che somiglia sempre di più a una partita di calcio, fa quasi strano che qualcuno si sia espresso. E abbia abbandonato un triennale stato di torpore per intraprendere un percorso, magari a perdere, allontanandosi dalla routine degli applausi e della cecità del consenso; dalla prepotenza del comando e dall’allergia alle critiche. Sembra quasi che il dono del potere – di questo si tratta – precluda dalla discussione, dalla critica anche feroce, dalle barricate ideali, dall’opposizione motivazionale e si riduca all’asservimento a tutti i costi. Sembra che il gusto della gioventù, del cambio di verso, delle risatine sciocche e dei ghigni arroganti, debba per forza soppiantare la libertà delle idee, la facoltà di pensiero, la libertà di deragliare e (volendo) farsi male.
E’ lo specchio di un Paese in cui ci si è persi fra destra e sinistra, in cui si tifa per i propri beniamini di partito come allo stadio, in cui il più “sperto” dei consiglieri comunali potrebbe risultare persino un macellaio del pensiero politico. Quello però non si allena più – ah, che bello potersi esprimere e analizzare – perché l’arte del ragionamento è venuta meno. Ma anche il potere assoluto rischia di dare alla testa: perché tutti contro uno? O sono tutti pazzi, o il problema è altrove. Anche se non dovesse quagliare mai nulla, una domanda varrebbe la pena farsela.