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L’alto valore simbolico della Cena di San Giuseppe: viaggio alle origini della devozione FOTO ed ELENCO CENE

by Redazione 15 Marzo 2014 5297 7 min di lettura
 L’alto valore simbolico della Cena di San Giuseppe: viaggio alle origini della devozione FOTO ed ELENCO CENE

San Giuseppe, padre della provvidenza, protettore dei falegnami, degli orfani e delle giovani in età da marito che lo invocano per poter contrarre un buon matrimonio, è largamente venerato in tutta la Sicilia e non vi è Comune che in data 19 marzo o in altra, non commemori la solennità del santo Patriarca. Il suo culto è presente in ben 83 Comuni dell’isola e uno dei momenti più folkloristici e diffusi della  festa è la “Cena di San Giuseppe”. Quest’ultima è una tavolata imbandita dai fedeli nelle loro abitazioni, per voto o per una grazia ricevuta dal Santo.

Per apparecchiare la tavola si fissa al muro, a  far da cornice, una coperta variopinta a cui a loro volta fanno da contorno arance amare, limoni e rametti di zagara che stanno a simboleggiare i tanti episodi negativi della vita umana. Sulla tavola viene stesa una tovaglia bianca e, al centro della Cena, un piccolo altare con un ‘immagine del Santo e la lampada ad olio (simbolo della fede) viene posta davanti al quadro, accesa per tre giorni, ai margini si mettono due portafiori con le violaciocche (“u balicu”) e le fresie vicini ai piatti di frumento appena germogliato (“u lauri” simbolo della Provvidenza Divina). Intorno al piccolo altare si dispone, con una certa simmetria, il pane (simbolo del lavoro umano) lavorato e decorato in varie forme: “i ucciddati” (pane di forma perfettamente rotonda come la nostra fede illimitata) in numero di tre o multipli di tre,”a sfera” e “a facci” (ci ricordano l’origine della stirpe di Davide da cui discende San Giuseppe), “u vastuni” (i bastoni che ci ricordano le promesse fatte al Santo),”i rusiddi a esse e a gi” come le iniziali del Santo e altri ancora tra i quali cestini, piattini, fiori. Su ogni buccellato si mette un pasticcio di spinaci, le polpette di riso e del baccalà fritto in pastella (quanto di meglio c’era da mangiare in tempo di Quaresima nei tempi trascorsi) e un po’ di tutto quello che la tavolata offre: vari tipi di biscotti, dolci tipici come “cicirieddi”, “mastazzola”, “cubaita”, “mustata”, “cassateddi”. Al centro della Cena c’è il piatto con le primizie (rappresentano le offerte fatte all’antica Dea delle Messi): carciofi, finocchi e altri ortaggi tipici di  questo periodo (frutto della terra lavorata dall’uomo). Poi ancora tre bottiglie di vino, simbolo dell’abbondanza, e su di ognuna di esse un’arancia fonte di benessere per i nostri contadini. La tavolata una volta era imbandita con semplicità rispetto ad oggi e le donne preparavano “u maccu”, un piatto di fave e taglierini oggi sostituiti dalla pasta “principissedda” condita con una salsa preparata con varie spezie: cannella, garofano, camommo. Sulla tavolata oggi è usuale trovare anche frutta esotica e torte salate e dolci particolari.

Si invitano alla cena tre poverelli: un anziano, una ragazzina e un bambino che rappresentano  Giuseppe, la Madonna e Gesù. Il giorno della festa la famiglia si reca in chiesa per la benedizione, mantenendo intorno al capo una corona di rami di arancio simbolo di Sicilia. San Giuseppe tiene in mano un bastone alla cui sommità c’è della fresia. I tre, seguiti dai padroni di casa e da gli invitati, dopo la benedizione, si dirigono verso casa accompagnati dalla banda musicale, ma ad attenderli una porta chiusa. Proprio a questa porta San Giuseppe bussa per tre volte e per altrettante volte gli viene negato l’ingresso (come quando Giuseppe e  Maria incinta ebbero il rifiuto ad alloggiare alla locanda di Betlemme), infine alla quarta richiesta la porta della casa si apre e i tre personaggi vengono ricevuti e la padrona offe subito a San Giuseppe una catinella con acqua (rappresenta la grazia) e vino (simbolo dell’abbondanza): momento di purificazione rappresenta il gesto di lavarsi le mani. San Giuseppe contemporaneamente, per rito, pronunzia la seguente frase: “‘Ncantu ‘ncantu c’è l’ancilu santu, Patri, Figghiu e Spiritu Santu” tradotto con queste parole: in ogni angolo c’è un angelo custode perché qui abita la trinità: il padre il figlio e lo spirito santo. Poi i tre personaggi siedono a tavola e mangiano serviti dai padroni di casa e portano a casa loro gli avanzi perché non vada perduto nulla. Dopo i Santi, possono mangiare tutti i presenti e tutti portano a casa qualcosa della tavolata che si regala di buon cuore, soprattutto ai  meno fortunati del paese.

Giusy Zisa

Foto di Giovanni Tidona (Il Boliviano)

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